Quando l’Amore è più forte del virus

Del racconto di vita vissuta pubblicato da Mario Calabresi, proposto più avanti, mi hanno colpito diversi aspetti. É una storia che si legge d’un fiato, preoccupati, e che solo il lieto fine consente di tirare un sospirato sospiro di sollievo: fortunatamente è andato tutto bene.
Ma questo lieto fine, in cui abbiamo sperato sin dalle prime righe, è stato possibile solo perché il modello biologico della malattia – che cura le parti del corpo come pezzi di una macchina da  sostituire o rimettere in funzione- è stato fortemente integrato dal lato umano della cura e dai legami affettivi e sociali che si stabiliscono tra le persone (modello bio psico sociale). Questi legami riescono a curare e guarire là dove la medicina non sa e non può arrivare.

Si dice spesso che le cure mediche devono essere umanizzate. In questa storia ne troviamo un felice esempio. Non può sfuggire che  per ben due volte si sono violate regole che altrimenti non avrebbero consentito al  marito di stare con la moglie, insieme, nella stessa camera della rsa e in ospedale, per più del tempo necessario. Solo grazie a delle eccezioni permesse dai medici, moglie e marito si sono potuti riunire e rimanere ricoverati, insieme.
Ci sono volute cure mediche, tempo, ma senza il forte legame affettivo e la possibilità di stare insieme non ce l’avrebbero mai fatta. Sono state violate delle regole ma si sono salvate delle vite. Sensibilità e buonsenso hanno avuto un ruolo fondamentale, come la medicina.

Nella mitologia greco-romana, l’Amore era un Dio, Cupido, e scagliava le sue frecce trafiggendo il cuore delle persone legandole, senza che potessero sottrarsi ai suoi effetti, come dice Eva Cantarella nel suo saggio LAmore è come un Dio.

Dobbiamo ricordare che non contano i capelli grigi, dentiere, cataratte e quant’altro, le frecce di questo Dio, l‘Amore, continuano a volare anche nelle Case di Riposo. Cerchiamo di tenerne conto! Organizziamo le strutture per i nostri anziani a misura anche di sentimenti e permettiamogli di circolare liberamente.

È il 5 marzo e, come ogni giorno da sei anni, franco si presenta alle 8.30 all’ingresso dell’RSA dove è ricoverata Adriana. Quella mattina però, ho un vassoietto di pasticcini alla crema chantilly, servono per festeggiare il loro 54°anniversario di matrimonio.

Si sono sposati nel 1996, viaggio di nozze con la 500 in Spagna, poi tre figlie in dieci anni. Non gli permettono di entrare, è appena arrivato l’ordine di liberare al più presto la struttura di parenti, amici, badanti, non può rimanere nessun estraneo: “Ma io sapevo che non potevo lasciarla sola, Adriana è malata di Alzheimer dal 2004 e se non ci sono io viene invasa dalla paura, non magia e si lascia andare. Cerco subito il direttore sanitario e gli chiedo di ricoverare anche me. È una richiesta difficile, resistono, ma io insisto, lo tempesto di telefonate. Dopo due giorni, in cui mi viene domandato continuamente se ho avuto contatti con milanesi, chi ho visto e dove sono stato, il direttore mi richiama: “Le ho messo un letto accanto a sua moglie, ma sappia che una volta entrato non potrà più uscire”. Così Franco, felice come un bambino, si prepara lo zaino e si auto-reclude nella RSA di sua moglie, che in poche settimane si sarebbe trasformata in un focolaio di Covid-19. Non se ne preoccupa, ha un solo desiderio: stare accanto a lei.

Intorno a metà aprile i miri stati febbrili tra operatrici seminano la paura, il personale si assottiglia e i tamponi non arrivano. Franco comincia ad avere una brutta tosse secca, poi la febbre.
Arriva il 25 aprile, l’altro anniversario: quello de giorno in cui si sono conosciuti nel 1961, la febbre di Franco arriva a 40. Lo portano alle Molinette: positivo al coronavirus con polmonite bilaterale. Mentre entra in ospedale è pieno di paure. “A riempirmi di angoscia non era la mia fine, ma il fatto di non prendermi cura di Ariana.”

Lei smette di mangiare, cinque giorni dopo ha la febbre alta e fa lo stesso percorso verso l’ospedale ma non sono nello stesso reparto, le cose si complicano e comincia il dramma. Nel delicato equilibrio costruito negli anni della malattia, lei si è abituata a mangiare solo con il marito o con le figlie, ma in questa situazione l’ospedale non può permettere l’ingresso a nessuno. Adriana rifiuta ogni alimentazione e tiene gli occhi chiusi. Sono passati ormai otto giorni da quando Adriana è sola e le figlie ricevono una telefonata dell’ospedale in cui capiscono che devono prepararsi al peggio.

Poi, il 4 maggio, si libera il letto accanto e Franco, il suo vicino è guarito. “E li hanno deciso di riunirci e hanno fatto li miracolo. Ho visto entrare Adriana, non ci potevo credere, mi sono tolto la mascherina e le ho parlato. Avevo una mousse di male sul comodino, l’ha mangiata subito. Io sono la sua tranquillità e questo per me è tutto”. Un’ora dopo Adriana stava mangiando: mezzo riso e un budino intero. Il giorno successivo una cena completa: passato di verdura, metà secondo e un altro budino. Ora è tranquilla. Franco rimane supportato dall’ossigenazione ad alti flussi per un’altra settimana, perché ha ancora numerosi focolai nei polmoni, ma, felice, riesce a fare una videochiamata alle figlie per mostrare loro la nuova vicina di letto.

Sabato 16 arriva il risultato del tampone, Adriana si è negativizzata. Franco no. Ma in ospedale hanno deciso di lasciarli comunque insieme. “Adesso le posso stare vicino, le tengo la mano e sentiamo la musica, lei è felice e io anche”. Domenica si è affacciato alla finestra della loro stanza per salutare le figlie.

Mario Calabresi